11 luglio 2009

quel buco da riempire


Inizialmente ho pensato ad una delle solite dissociate mentali, di mezza età, che camminano guardandosi i piedi e parlando con un amico immaginario, ovviamente con aria stizzita, gesticolando e borbottando parole mai complete.
E mica a bassa voce….del resto è nel mezzo di una lite con i fiocchi, lo si vede da come tiene stretta tra le dita la sigaretta che va consumandosi più per il movimento circolare che la mano compie ripetutamente che per l’atto di aspirazione del fumo.

Mi sento osservato da dietro la vetrina.
Non so come, ma anche se sono occupato al pc e la testa china “dentro” lo schermo sembra indifferente al mondo circostante, percepisco il suo sguardo che oltrepassa il vetro, supera le sculture che indifferenti al passaggio della gente esterna si fanno bellamente i cazzi propri raccontandosi chissà quali storie.
Il suo sguardo di dissociata in pausa di riflessione – credo che l’amico immaginario ( o forse sono io a non vederlo) si sia preso una pausa caffè al bar, in fondo alla via – mi costringe ad alzare gli occhi dal pc, incontrare i suoi.
Istintivamente, come un gesto ormai automatico, abbozzo un sorriso – che spero non risulti totalmente da idiota – e saluto con un cenno del capo, riportando poi il mio sguardo al computer.
Ho imparato che se ti soffermi per più di mezzo secondo a guardare la persona all’esterno della vetrina, l’imbarazzo – il suo intendo – la costringerà a scomparire o a cercare qualche gesto, qualche parola che non sentirò attraverso il vetro, per poi precipitarsi scusandosi a gesti, vero altre mete.
Se commetti questo errore, stai pur certo che la persona non entrerà mai, convinta forse di essere assalita da venditori porta a porta affamati.
Eredità che ci portiamo dai tempi in cui ci trovavamo con le case colme di volumi di enciclopedie!
Ho pertanto sviluppato un codice di comportamento silenzioso e a gesti che il più delle volte tranquillizza il visitatore e lo spinge ad entrare, senza sentirsi obbligato ad un acquisto.
Il mio comportamento sembra dire – se ti va di entrare fai pure, che tanto ho altro da fare e non perderò tempo a rincorrerti per venderti qualcosa.
E così succede, puntualmente.
Varcano la soglia, accettano volentieri il mio saluto sempre cortese – spesso in italiano, o in inglese se capisco che non sono italiani.
Vorrei poterli salutare in tutte le lingue – non nello stesso momento, come uno scioglilingua incomprensibile – ma il mio vocabolario dei saluti si riduce a poche parole, inglese, tedesco, spagnolo, francese.
Oltre il saluto non vado, tranne che per l’inglese.
Appena sono dentro la sala li lascio gironzolare tra le proposte e torno al mio pc.
Quando hanno la certezza che non saranno assaliti, si rilassano e si soffermano con più interesse ad osservare le opere esposte, senza dover tenere a portata di vista – e di movimento – l’uscita.
Ogni tanto sollevo lo sguardo dal mio lavoro – sembro sempre occupatissimo, anche quando in realtà sto visitando blog o sto scrivendo qualche pagina di deliri immaginari – per verificare che non abbiano bisogno di informazioni e/o consigli per gli acquisti ( che fa tanto Maurizio Costanzo).

La dissociata è ancora davanti alla vetrina, e mi sta guardando dubbiosa sul da farsi – la vedo senza dover incrociare i suoi occhi, riflessa nella porta d’ingresso.
C’è un bellissimo gioco di riflessi tra le vetrine e le porte che spesso mi consentono di vedere cosa accade senza dover necessariamente interagire con gli sguardi esterni.
Riesco soprattutto, attraverso il riflesso di una porta a vetri, vedere chi da lontano, sta salendo la strada per venire verso me, e in quel caso so con anticipo se sta giungendo qualche amico, qualche probabile cliente,o , TERRORE! , i soliti pedanti visitatori che non saranno mai clienti ma che mi hanno preso come tappa quotidiana per sfogare le proprie frustrazioni e per raccontarmi le mille malattie di cui sono affetti.
La lista può essere infinita:
nell’arco di poco tempo ho collezionato storie improbabili di ginocchia della lavandaia, fuochi vari di S.Antonio, per non parlare di vene varicose e operazioni stomachevoli.
Il culmine è stato un signore che mi ha raccontato nei dettagli la sua operazione di emorroidi, fortuna che sono entrati altri clienti prima che si calasse le mutande e mi mostrasse l’opera del chirurgo!
Tornando alla nostra visitatrice, vedo che titubante varca la soglia ed entra.
La saluto cordialmente e ricevo come risposta un timido sorriso.
Deve aver lasciato fuori l’amico immaginario perché improvvisamente sembra aver interrotto il suo dialogo solitario.
Gironzola nella sala guardando con attenzione le opere esposte.
Ad un certo punto vedo che mi guarda – segnale inequivocabile che vuole dire qualcosa o si aspetta che sia io a fare il primo passo – fermandosi nel centro della stanza, comunque in posizione di sicurezza, vicino all’ingresso.
Non sia mai che mi veda spiccare un volo dalla mia scrivania e come un lupo mannaro, aggredirla violentemente.
Le chiedo se posso aiutarla e sembra titubare qualche secondo prima di espormi la sua richiesta.
Cerco un quadro rettangolare – mi dice – ma vedo che sono quasi tutti quadrati.
Suona come un’accusa.
Le chiedo se ha visto qualche stile o qualche autore particolare, in modo da poterle proporre quello che ho di quell’artista, ovviamente nel formato rettangolare.
Non saprei – prosegue guardandomi con compassione come se fossi un cerebroleso – lo voglio rettangolare!
Ok, mia cara signora, questo punto è chiaro.
Cerco di sondare se predilige un quadro ad olio, ad acquarello o una stampa digitale.
Le chiedo se ha predilezione per un soggetto piuttosto che un altro.
Mi spingo a chiederle in che tipo di ambiente intende collocarlo per poterle proporre opere idonee.
La guardo sorridendo e leggo nei suoi occhi chiaramente il suo pensiero, come se fosse una scritta scorrevole con i led rossi, che passa da sinistra a destra come le quotazioni della borsa sui palazzi di New York “….. brutto idiota che non sei altro….. voglio un quadro rettangolare….ma sei proprio ottuso a non capire una cosa così ovvia …..”

Cominciano a prudermi le mani.

Cerco di concentrarmi raccogliendo tutta la calma e i pensieri zen che non ho mai avuto e le mostro i quadri rettangolari che ho in galleria.
Mi chiede i prezzi indistintamente di tutti.
Questo è troppo lungo , quello troppo corto, quello troppo spesso, quello troppo sottile
Nessun commento sul soggetto.
Ovviamente, visto che mi ha fatto prendere le misure di ogni quadro, metro alla mano, le suggerisco che se mi dice la misura che cerca posso aiutarla meglio.

Sorride.
Non me lo dice.

Mi saluta cortesemente e fa per andarsene.
Prima di uscire definitivamente si volta verso di me.

ho un buco da riempire, dentro una vecchia cornice. Ma lei ha delle misure sbagliate.
Ripasserò
.

La osservo scendere lungo la strada.
Annoto mentalmente di dovermi procurare opere di formati giusti, non posso perdere una cliente per questione di cm.
Abbasso la saracinesca e lancio un’ultima occhiata alle pareti della galleria.
E’ vero, osservo, ho quasi solo opere quadrate.










2 commenti:

  1. Straordinario post psicologico!Il tuo racconto è talmente coinvolgente che ci pare di essere stati lì con te. Resta il dubbio sul significato da attribuire a quell'urgenza di riempire il buco da parte della signora. Nessuna attenzione o predilezione estetica, storico-artistica, ma solo il bisogno di riempire quel buco della cornice...Non sarà banale ignoranza, ma qualcosa di più complesso, esistenziale. Speriamo torni davvero per saperne di più!

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  2. Vi ringrazio per i vostri commenti sempre interessanti.
    Ne avrei tante di storie da raccontare, alcune assurde, altre più comuni.
    Per quanto riguarda la signora..... temo abbia trovato qualcosa per riempire il buco, da queste parti non si è più vista.

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